Settimanale, anno 16 - n. 39
Ven, 19 Aprile 2024

Sulla musica >> Parliamo di canto

Studi, tesi, riflessioni sulla musica

Probabilmente pochi sanno che ogni volta che noi parliamo emettiamo delle note musicali. Se per esempio pronunciamo la parola "Alessandro", emettiamo quattro note, uguali o diverse tra loro, a seconda delle inflessioni che diamo alla nostra voce. Inoltre, senza rendercene conto, accentuiamo la nostra voce sulla terza sillaba, cioè diamo un accento alla parola. Proviamo ora a pronunciare la stessa parola per metà, eliminando le due ultime sillabe: "Ale".  Non essendoci più la terza sillaba, che fine ha fatto l'accento? E' andato a finire sulla prima sillaba, come è facile constatare. Abbiamo quindi un accento principale ed uno secondario per ogni parola che pronunciamo, ovviamente se è più lunga di due sillabe.
E' facile estendere questi concetti alla musica ed al canto. Quando cantiamo, non importa in che modo, appoggiamo la voce in modo accentuato in alcuni punti e lo facciamo spontaneamente, senza che nessun maestro di canto ce l'abbia mai insegnato. Prendiamo un motivo famoso e ben conosciuto da tutti, come per esempio Il cielo in una stanza di Gino Paoli e cantiamone qualche rigo: "Qua-ndo sei quì con me  què-sta stanza nòn ha più pati ma àlberi" etc... Le sillabe sottolineate sono state tutte accentuate, in modo pressoché spontaneo: nella musica queste sillabe vengono definite "in battere", riferendosi alla mimica universalmente usata da chi insegna la musica. Un battito delle mani sugli accenti, un allontanamento delle mani sul secondo tempo ("levare") e due movimenti trasversali di completamento nel caso di un brano con battute in quattro tempi (chiamate appunto in musica quattro quarti).
Non vorremmo che si arrivasse alla conclusione che chiunque parla sta anche cantando: il canto è una funzione più avanzata della voce, ed una persona sensibile può passare dal parlato al canto emettendo gli stessi suoni, le stesse note, in modo "musicale". Come? Vediamolo insieme, e partiamo ancora da un esempio.
Prendiamo un nome femminile diffusissimo, Maria, e pronunciamolo. In quanti modi diversi possiamo pronunciarlo? In tantissimi, a seconda del contesto in cui siamo. Qualche esempio.
- Come si chiama quella ragazza? Maria
- Maria! Dove sei?
- Maria, ti prego, smettila di cambiare continuamente canale!
- Maria, sei la donna della mia vita!
Abbiamo ogni volta detto "Maria", ma abbiamo usato quattro intonazioni ben differenti, calcando in particolare la voce sull'una o l'altra parte di questo bellissimo nome: ma sempre utilizzando tre note musicali.
Ed ora, passiamo all'esempio musicale: il nome "Maria" nel celebre brano tratto da West Side Story, che porta proprio questo titolo. Cantiamo queste tre semplici sillabe, oppure, se pensiamo di non esserne capaci, ascoltiamone un'esecuzione. Ed ecco che tutto cambia: la voce ha acquistato una colorazione ed una vibrazione nuova, ed il suono di questa parola è diventato pieno di passione e di sentimento. Stiamo cantando.
Cantare significa quindi emettere la voce in modo controllato e sonoro, cioè emettere un suono armonioso ed in qualche modo piacevole; mentre parlare vuol dire si emettere un suono, ma in modo casuale e non controllato. Il parlare rassomiglia di più a quello che in fisica viene definito "rumore", che si differenzia dal "suono" perché le sue vibrazioni non sono costanti. Per capirci, ascoltiamo il suono prodotto dalla pressione di un tasto del pianoforte, e confrontiamolo con quello ottenuto battendo il pugno sul legno dello strumento; il primo è un suono, il secondo un rumore.
Sarebbe troppo facile dire che esiste un unico modo di cantare. Ne esistono molti, per non dire infiniti, perché il canto non è unicamente un'espressione vocale ma un'espressione di tutto il corpo, ed ogni persona che canta ha un suo stile unico ed irripetibile. Pensiamo ad una canzone famosa, e ascoltiamone le interpretazioni di due diversi cantanti. Tornando al Cielo in una stanza, pensiamo all'interpretazione di Gino Paoli ed a quella di Mina. Oppure, prendiamo un altrettanto celebre motivo di Don Backy L'immensità ed ascoltiamo l'interpretazione dell'autore e quella di Johnny Dorelli. Le sensazioni che proviamo ascoltando l'una o l'altra delle esecuzioni è certamente diversa, e ci sarà chi ne preferirà una, chi l'altra. Per i non più giovani, ricordiamo la canzone Romantica di Renato Rascel, vincitrice del festival di Sanremo del 1960. Veniva cantata dallo stesso Rascel in una delle due esecuzioni e da Tony Dallara nell'altra. I due stili erano radicalmente opposti, perché Rascel usava un registro melodioso e romantico, mentre Tony Dallara cantava con uno stile aggressivo ed impetuoso, utilizzando molto quelle che in musica vengono chiamate "terzine". L'effetto finale, pur essendo le note identiche, era profondamente diverso.
I puristi del canto sostengono che i veri cantanti sono unicamente i cantanti lirici, come Luciano Pavarotti, Maria Callas, Placido Domingo, Cecilia Bartoli. Altri invece, ed in particolare i giovani, provano addirittura in certi casi avversione per il modo di cantare lirico e preferiscono lo stile rauco e urlato di certi cantanti moderni, di cui non è necessario fare il nome perché sono gli idoli del pubblico.
Non si intende qui esprimere un parere su questo argomento, che rimarrebbe comunque un'opinione personale. Vogliamo però riaffermare il concetto che ogni brano deve essere interpretato secondo il suo genere e che i tentativi dei cantanti di interpretare brani non adatti alla loro scuola vocale danno risultati quantomeno deludenti, ed in certi casi ridicoli. Pensate alla canzone Anima mia dei Cugini di campagna, oppure ai divertenti motivetti briosi di Renato Carosone o di Renzo Arbore interpretati da un tenore lirico. Non so chi sta leggendo, ma la sensazione di chi scrive è quella di disagio, accompagnata da un senso di fastidio: un tenore va benissimo per cantare Celeste Aida o Che gelida manina, ma se si deve interpretare Piccolo grande amore di Claudio Baglioni, sinceramente un buon cantante di musica leggera lo fa molto meglio ed in modo decisamente più efficace.
Il problema si pone in modo limitato per i solisti: di solito, i cantanti lirici cantano le opere e quelli di musica leggera le canzonette. Il caso reciproco è raro e costituisce più che altro un esperimento, con qualche rara eccezione di cantanti che si producono bene in ambedue i campi.
Nei cori amatoriali, invece, il problema è frequente: alcuni cori formatisi da molti anni hanno un repertorio molto ampio, che spazia dalla musica religiosa ai canti di montagna, agli spirituals e gospels, ai canti popolari, ai canti di epoca medioevale. Un buon coro deve essere in grado di adattare il proprio stile al brano in esecuzione e questo richiede nel direttore e nei singoli coristi un buon grado di adattamento ed una flessibilità di interpretazione piuttosto avanzata. Chi ascolta le esibizioni di un coro spesso non si rende conto di queste difficoltà e non apprezza fino in fondo le capacità di alcune corali di eseguire brani di natura diversa con la stessa qualità.
Passiamo ad un ultimo argomento, sul quale la discussione è aperta. L'interpretazione della canzone dialettale, cioè quella legata ad una particolare regione (parliamo dell'Italia, perché un discorso sulle canzoni dialettali a livello mondiale ci porterebbe davvero troppo lontano). Inutile dirlo, la nostra nazione è ricchissima di motivi popolari regionali, che meriterebbero davvero di essere coltivati ed apprezzati più di quanto non sia fatto. Dalla Sicilia al Veneto, dalla Calabria al Piemonte, esiste una grande quantità di canti, che qualche volta alcuni cori ed alcuni solisti ci danno la gioia di ascoltare. E' evidente che i migliori interpreti di questi canti sono coloro che in ciascuna regione ci vivono, ne conoscono le abitudini, le tradizioni e la cultura e la esternano attraverso quel mirabile strumento che è la voce umana: anche in questo caso, non è solo la voce che canta, ma tutto il corpo esprime la propria origine, ed il risultato è spesso migliore di quello che si ottiene con una grande orchestra ed una miriade di effetti sonori speciali.
Un discorso a parte lo merita la canzone napoletana cosiddetta antica. Se qualcuno ha ascoltato il concerto di Andrea Bocelli in piazza Plebiscito a Napoli il 24 Ottobre 2008, avrà notato che il presentatore insisteva più volte sul concetto che le canzoni napoletane spesso hanno un grado di difficoltà pari a quello delle romanze e richiedono l'interpretazione di cantanti lirici, come lo stesso grandissimo Bocelli ed altri. Questo concetto ha fatto si che moltissimi cantanti lirici si siano cimentati nell'interpretazione di motivi come Tu ca nun chiagne, ‘O sole mio, Voce ‘e notte, ed altri grandi capolavori della canzone napoletana. Ricordiamo alcuni cantanti ben noti al pubblico giovane e meno giovane, come Beniamino Gigli, Ferruccio Tagliavini, Tito Schipa, Mario Del Monaco, Giuseppe Di Stefano, Luciano Pavarotti e lo stesso Bocelli.
Se possiamo permetterci di esprimere un giudizio su queste esecuzioni, cominciamo con il dire che il talento di questi grandi cantanti non può essere messo in discussione, e dal punto di vista musicale e vocale la loro interpretazione è pienamente adeguata, dandoci una gradevole sensazione di potenza e di sonorità come nell'ascolto di una romanza di Verdi o di Bizet.
Per quanto riguarda invece la pronuncia, ci sia consentito di esprimere in tutta sincerità la nostra opinione: la "Lingua" napoletana ha una sua espressività musicale già nel parlato, come si può constatare ascoltando le voci di grandi maestri come Totò, Eduardo De Filippo, Massimo Troisi e tantissimi altri ben noti al pubblico. Nel canto questa espressività è portata a livelli ancora superiori, ed una buona interpretazione richiede non soltanto un buon volume di voce ed una buona intonazione, ma anche una giusta impostazione della pronuncia, senza la quale il sentimento che permea le canzoni napoletane va in parte disperso. Nella maggior parte dei casi, la pronuncia di questi grandi maestri del canto è ben lontana da quella originale napoletana, e questo si ripercuote in modo negativo sull'effetto di insieme. L'ideale sarebbe che a cantare le canzoni napoletane fossero cantanti lirici napoletani "veraci", e ce ne sono senz'altro molti. Purtroppo, l'accesso agli strumenti di comunicazione come radio e TV spesso è carente sotto questo aspetto, e molti talenti sono conosciuti soltanto da un ristretto pubblico di ammiratori. Tra i tanti, vogliamo ricordare con affetto Federico De Curtis, nipote di Ernesto De Curtis (l'autore di Torna a Surriento),  un tenore napoletano prematuramente scomparso, che ha fatto parte per molti anni del coro del Teatro San Carlo, e che chi scrive ha avuto l'onore di conoscere personalmente.
Torneremo sull'argomento "Canto" per altre riflessioni e saremo grati ai lettori se ci potranno fornire qualche spunto in proposito.

Giovanni Vitagliano