Interviste >> Claudio Cataldi
Claudio
raccontaci dei tuoi primi passi nella musica
Ho
iniziato a suonare in gruppo ai tempi del liceo. Un anno, dopo le
vacanze estive torno a scuola e scopro che un mio amico aveva
comprato una batteria, e così ci mettiamo a suonare insieme, pur
essendo entrambi non dico alle prime armi, ma quasi. Mettiamo su una
band e la chiamiamo Resthouse, in onore della casa di riposo di
fronte la quale c'era la nostra "sala prove" - che altro non
era se non la casa del batterista. Facevamo per lo più cover anni
'90, ma anche i miei primi brani: avevo iniziato a scrivere musica
l'estate prima, armato di cassette e block-notes. Molte di quelle
cose naturalmente erano abbastanza ingenue, però avevano una certa
purezza che poi, con gli anni, inevitabilmente si perde. Con questo
gruppo ho anche iniziato a suonare dal vivo, prima in feste private e
nelle scuole, poi anche in veri e propri locali. Dopo meno di un anno
il gruppo si sciolse. Da allora ho sempre messo su formazioni in cui
scrivevo del tutto o in parte i brani. L'esperienza mi è servita
anche per approcciarmi da subito con la dimensione live.
Un anno dopo
esplose il fenomeno dell'home recording, e tutti si misero a
realizzare delle pessime ma sincere demo, me compreso. Col mio gruppo
successivo ho iniziato ad esplorare le possibilità della
registrazione e ad avere i primi contatti con il mondo delle webzine
e delle recensioni.
C'è
un'idea comune che lega le canzoni dei tuoi EP?
Sia Ghost Town che Sleepy River sono frutto di una selezione, alla ricerca di una ben precisa
immagine da trasmettere all'ascoltatore. La selezione non l'ho
fatta solo basandomi su criteri qualitativi, ma soprattutto in base
all'atmosfera finale che volevo creare. Ghost Town viene fuori da una forte esigenza di fuga dalla musica intesa come
pesantezza e come accumulo di orpelli e barocchismi. Volevo
recuperare semplicità e leggerezza, la stessa leggerezza che avevo
quando ho iniziato a fare musica. Avevo in testa immagini di deserti
e di case abbandonate e diroccate al sole. Analogamente i testi
riflettono questo stato d'animo e parlano di contatto con la terra,
di girovagare senza meta, di immergersi nella meditazione. Sleepy
River nasce da un'esigenza diversa, da una ricerca
di ricchezza - ricco nel senso di rigoglioso, come può esserlo un
bosco. Stavolta ho cercato di aggiungere colori alla tavolozza ed
allo stesso tempo di realizzare un lavoro omogeneo, che scorresse
fluido dall'inizio alla fine, come il fiume del titolo. Anche
stavolta i testi hanno seguito la musica e secondo me sono più
chiari, imperniati maggiormente su sentimenti e rapporti umani.
Diciamo che Ghost Town esprime un senso di solitudine e
ricerca interiore, mentre Sleepy River esprime una volontà di
protezione riguardo a ciò che si ha caro.
Cosa
ti ha dato la tua terra d'origine musicalmente parlando?
Come
quasi tutti i miei coetanei cresciuti in città e bombardati dalla
televisione ho poco contatto con la musica popolare siciliana, che da
noi è una faccenda che si studia all'università ed è molto
lontana dalla cultura media e bassa.
Bisogna diffidare di chi
parla di "folk siciliano", quasi sempre non sa quello che dice.
Nonostante questo, la mia terra mi ha dato tantissimo in termini di
immagini.
In Sicilia convivono spinta verso la modernità ed
arretratezza secolare, alienazione e solidità nei rapporti umani,
paesaggi naturali ed inquinamento selvaggio, solitudine e folla.
Un'autostrada in mezzo alla Sicilia è l'anello di congiunzione
tra la Route 66 e uno stradone per i muli: il massimo
dell'ispirazione!
So che quel che faccio suona molto
anglosassone, ma se non fossi nato in Sicilia tutto sarebbe uscito
davvero diverso. È una sorta di polvere che ti si poggia addosso e
permea tutto ciò che fai.
Ci
parli della tua collaborazione con la Wool Shop Productions?
Conosco
Peppe Mistretta da cinque o sei anni. Ai tempi suonavo in un gruppo
di ispirazione post-punk, i Four A.M. Eternal, e lui era uno dei
pochi appassionati del genere, così facemmo amicizia.
Qualche
anno dopo, un bel pomeriggio mi telefonò dicendomi che aveva
intenzione di aprire una bedroom label per produrre musica che
avesse un certo tipo d'atmosfera, per così dire, autunnale.
Cantautorato, twee pop, shoegaze, acid folk, insomma tutte robe che
si adattano bene ad una coperta di lana.
La
sua idea era unire questo sound a packaging artigianali, fatti con
materiali riciclati o riciclabili. Mi chiese di inaugurare il
catalogo con un mio disco, e io fui davvero felice della cosa.
Qualche giorno dopo mi iniziò a portare delle prove per l'artwork.
Si trattava di lavori fatti con carta, pezzi di legno e filamenti di
lana, roba da restare a bocca aperta. A tutt'oggi, circa due anni e
dodici uscite dopo, continua a fare questi lavori a mano con la
carta, il cartone, la stoffa, la lana, con il legno, dipingendo,
ritagliando e assemblando ogni singola copia. Anche ora che lo
contattano da mezza Europa e dagli Stati Uniti per avere i dischi o
per sottoporgli demo lui non ha cambiato di una virgola il suo
approccio. È un lavoro che ammiro molto, perché fatto con vera
passione e non con la calcolatrice in mano.
Cosa rappresenta per te il momento del live?
Suono
dal vivo, anche se ultimamente meno spesso di prima. Negli ultimi
tempi mi sono esibito solamente con voce e chitarra, facendo brevi
set, per cercare un maggiore contatto con chi ascolta. Diciamo che ne
ho approfittato anche per educare me stesso ad un rapporto più
diretto col pubblico, perché di mio sono abbastanza schivo. Per
l'uscita di Sleepy River penso di metter su una formazione
più organica e fare set un po' più estesi. Non ho in programma di
rimettermi a registrare a breve, perciò penso che mi dedicherò ai
live per ora. I live, per me, sono sempre una buona occasione per
provare forti sensazioni. Dai concerti esco sempre scosso, in
positivo o in negativo: assurdamente felice o terribilmente di
malumore, a seconda di come è andata. Cerco di creare un'atmosfera
sospesa, una cosa abbastanza fragile, a cui bisogna dedicare molta
attenzione e cure.
Annalisa Nicastro (20.2.11)