La Soffitta >> Un consiglio: attrezzatevi prima di partire
Gruppi, dischi, storie e personaggi che hanno fatto la storia della musica!
Smog è Bill Callahan. Nasce nel 1966 nel New Hampshire, cresce nel Maryland e in Inghilterra. Viene iniziato alla musica in Georgia e successivamente si stabilisce in California, dove attualmente vive.
La sua musica muove i primi passi all'interno del movimento low-fi americano, movimento di quel rock portato avanti da artisti come Beck o i Pavement. E' curioso sapere come da bambino combatta l'insonnia ascoltando la radio a transistor, divertendosi a giocare con la manopola della sintonizzazione, disturbando così i suoni delle canzoni con questi rumori elettrostatici. Questa tendenza allo sperimentalismo lo accompagna nei suoi primi lavori autoprodotti (Macramé Gunplay del 1988, Cow del 1989, A Table Setting del 1990, Tired Tape Machine del 1990) fino ad arrivare ai suoi primi dischi: inSewn to the sky 1990 Smog rinuncia alle armonie lasciando che gli strumenti nelle loro discordanze farraginose producano musica. Un canto delocalizzato, ritmi fuori tempo, rumori prodotti da chitarre producono un vero e proprio blues sgangherato. Ad inaugurare la nuova stagione arriva nel 1993 Julius Caesar, un lavoro che si distanzia subito dalle sonorità precedenti. Affiancato dal violoncello di Kim Osterwalder, Callahan riscopre armonia e orchestrazione, chiaramente a modo suo.
Seguono lavori del calibro di Wild love 1995, The doctor came at dawn 1996, Red apples falls 1997, Knock knock 1999,Dogs of devotion 2000, Supper 2003, A River Ain't Too Much to Love 2005.
In tutti questi lavori Smog raggiunge finalmente la sua maturità, dando l'idea di non averla comunque mai cercata. In A River Ain't Too Much to Love si definisce sempre più come magnifico costruttore di atmosfere fataliste e oniriche, ripetendo sempre lo stesso tema: l'angoscia più profonda di chi è costretto a vivere in un mondo che non ama. Avvicinandosi in questo senso ai grandi cantanti intimisti e minimali (Nick Drake, Daniel Johnston. Leonard Cohen), Smog canta il dolce cullarsi nella propria poesia che basta a se stessa, scivolando nell'inedia e in un languore che restituiscono a contrasto uno stato quasi di esaltazione e di ebbrezza, come in una visione estatica della vita. Una voce bella e piena, profonda, baritonale che si muove sotto la pelle dell'ascoltatore e che lo trasporta senza paura in un deserto di solitudine, dove ci sono strade infinite che tagliano lo spazio, serpeggiando fra silenzi incredibili che confinano con la follia. Uomini fischiettano melodie melanconiche e lontane, evanescenti, con echi di armoniche a bocca che sanno di una festa di paese ormai passata e sepolta. Luoghi dell'anima dove non splende mai il sole (strano a dirsi trovandosi in un deserto dove il sole acceca) e quella certa luce definisce tutti gli oggetti rendendoli piatti, senza donargli quello spessore che solitamente hanno.
Smog si muove in un mondo routinario, dove le giornate si ripetono sempre uguali. Vorrebbe cambiare se stesso ma non riesce nemmeno a provarci, perché in fondo la cosa non avrebbe molto senso. Il suo desiderio più grande sarebbe quello di poter diventare una roccia, immobile e inerte, completamente indifferente a quello che lo circonda. Ma non può: è prigioniero della sua vita, del suo passato, dei suoi pochi ma radicati affetti. Say Valley Never, Rock Bottom Riser, Drinking At The Dam ci restituiscono questi sentimenti tenui, quasi pallidi come di stanchezza fisica. In the Pines e' sicuramente il pezzo del disco più lirico e più vero, che coglie con eccezionale precisione, pur nella sua impalpabilità, quella strana luce piatta in cui si muovono i personaggi di Smog, sostenuti da una ritmica polverosa prodotta dalle spazzole suonate alla maniera jazz. Li vediamo agire attraverso un vetro su cui batte una pioggia di sabbia. Callahan e' in fondo un uomo semplice e solitario. Sfugge al clamore del mondo e virilmente sceglie il dolore dell'esistere. Poche interviste, pochi concerti, scarsa promozione, semplici e spartane le grafiche delle copertine dei suoi album. A tale proposito l'artista pubblica nel 2004 tre raccolte di disegni che testimoniano e confermano il suo talento visivo e visionario (Women, The Death's Head Drawings eBallerina Scratchpad). La materia di fondo è subito esposta senza bisogno di infingimenti o dissimulazioni.
Quando ascoltiamo un disco di Smog viene in mente un'immagine ben definita: un cavallo nero, un fuocherello su cui bolle un pentolino di caffé, tutto intorno lo spazio sconfinato: l'ultimo Cow-boy capace di affrontare il deserto della vita.
Un consiglio: attrezzatevi prima di partire.
Ha un aspetto più strano del solito oggi il parco di Joshua Tree. Uno spazio assolutamente nudo; nudo come i massi rotondi che affollano la superficie del parco naturale più ambiguo della California. Solo l'albero di Joshua poteva crescere in un posto così. Un'insolita specie di Yucca, che cresce in zone molto aride, con un tronco affusolato e lunghe foglie che ne ricoprono la superficie. Rocce spoglie e rotonde e alberi di Joshua che puntellano un paesaggio del tutto straniante, dove non è difficile perdersi se non si è abbastanza forti. Joshua Tree dista solo un paio di ore da Los Angeles, ma ci si ritrova in un luogo proprio strano, come se non si appartenesse più a questo mondo. Yucca Town e' uno dei principali centri urbani ed è una delle città più povere del sud della California, con quasi il 20% della popolazione che vive sotto la soglia della povertà. La principale fonte di reddito della zona è costituita da una base militare.
Il capitano Bill Collins si muoveva con la sua jeep d'ordinanza in questo paesaggio lunare, pensando di trovarsi in un luogo davvero speciale, una specie di prova d'esistenza concessa a pochi. Era stanziato da più di un anno nella vicina base militare Marine Corps Air Ground Combat Center, l'avamposto dei Marines più numeroso degli Stati Uniti. I Marines lo considerano naturalmente un pessimo luogo dove stare. Quell'isolamento e quel clima sanno veramente far male. Se non si è attrezzati in maniera adeguata, si può perdere la ragione e scadere in una follia piatta. Il capitano si sentiva però un vero uomo, attrezzato appunto per affrontare la prova più estrema che sia concessa ad un uomo: il deserto. Lo ripeteva sempre ai suoi uomini: "siate forti per il deserto!". In un primo momento i giovani Marines appena arrivati alla base non lo capivano, e, pensando di avere a che fare con uno un pò svitato, scrollavano le spalle in maniera divertita. Il soldato Martone, di chiara origine italiana, quando il capitano gli si rivolgeva con quella frase, lo guardava dritto negli occhi, assumendo un tono di sfida. Sapete come sono gli italiani, orgogliosi e diffidenti di natura. Il fatto è che pochi mesi dopo lo trovarono impiccato nel bagno della camerata, appeso ai tubi dell'acqua con la sua cintura d'ordinanza.
Via via che i mesi passavano e i soldati continuavano a consumare la propria esistenza in quel fottuto nulla, solo allora cominciavano finalmente a capire quelle parole. Perché questo voleva dire il capitano: se sei capace di affrontare il maledetto deserto, allora sei pronto per qualsiasi nemico. Quale migliore palestra per un soldato che quella! In pochi però passavano la prova. Alcuni cadevano ai primi mesi, come il povero Martone, altri non arrivavano al primo anno, se non impazzivano prima. Era dura! Davvero.
Un luogo così per forza di cose si presta alla follia, di qualsiasi tipo. Nel Joshua Tree national park è risaputo che normalmente si muovano cowboys e alieni. Uno di questi fu il leggendario Gram Parsons, artista maledetto, noto per essere stato la mente dietro uno dei migliori album dei The Byrds, Sweetheart of the Rodeo, per poi finire alla ricerca di alieni nel parco, con molto LSD posizionato sotto la lingua. Considerato una figura chiave del country-rock, morì a soli ventisei anni in un motel, il Joshua Tree Inn. Ogni anno si celebra un festival che celebra la sua leggenda, portando musicisti e appassionati da tutta la California. Da qui sono usciti i Gram Rabbit, la band che meglio incarna l'essenza di questo alienante parco naturale.
Sveglia alle 5 del mattino, pulizia e rassetto generale, adunata, colazione, alzabandiera (toccandosi il cuore di fronte alla gloriosa e sventolante stelle e strisce), esercitazioni varie, pranzo, adunata, esercitazioni, corsi di perfezionamento anche culturale (perché un vero marine americano deve essere acculturato), cena, socializzazione, poi tutti in coperta. Ecco, questa era la vita di un buon marine. Tutto questo si ripeteva ogni giorno che Dio mandava in terra sempre uguale. Aspettando con deferenza e fede assoluta nel proprio Stato che arrivasse finalmente la propria e personalissima missione, quella che avevano sempre cercato. I soldati partivano coscienti o incoscienti di quello che li aspettava, lontani da casa e da loro stessi come due emisferi inconciliabili, felici di fare comunque il proprio dovere. Tutto questo per la gloriosa patria! Milioni e milioni di morti, per la gloriosa patria. Ma era e sarebbe stato sempre così.
Ogni giorno tutto si ripeteva sempre uguale, fino all'arrivo del venerdì che c'era la libera uscita e tutti i soldati potevano stare fuori fino al giorno dopo. Potevano fare quello che volevano. Comunque lì intorno non c'era poi molto da fare se non si era di natura introspettiva. Di solito per avere un po' di movimento ci si ritrovava tutti da Pappy and Heriett's, una specie di bar che sembrava saltato fuori direttamente dai film western. Cowboys, biker e marines si ritrovavano tutti lì la sera a ingolfarsi di birra e whiskey. Generalmente, se cercavi bene, ci trovavi pure una congregazione d'artisti che venivano lì per "succhiare la vita vera e genuina che il deserto sa offrire", così almeno dicevano loro. Ogni venerdì di solito si esibivano dal vivo band stupefacenti che si muovevano fra il country-rock e il rock'n'roll. C'erano pure un sacco di ragazze, che erano lì per lo stesso motivo degli uomini, fortunatamente per loro. Dopo essersi ubriacati ben bene, ci si lasciava andare sui ritmi e le chitarre suonate con lo slide. Una musica che comunicava una certa tiepida empatia, ci si sentiva come in famiglia, almeno per alcuni momenti. Si ballava fino a non poterne più. Qualcuno più fortunato smetteva prima o perché crollava sul pavimento di ruvido legno svenuto dal troppo alcol o perché (ed era una vera fortuna) aveva rimorchiato qualcuno. Maschio o femmina a quel punto non importava. Ci si andava ad appartare nel primo cespuglio libero intorno al mitico Pappy and Heriette's. Che dire, ogni tanto ci scappava pure qualche rissa, come sono sempre avvenute da che mondo e' mondo, ma niente di serio. Era come rispettare un copione già scritto. E tutte le persone che si trovavano lì, facevano di tutto per rispettare questo credo. Anzi, era l'unico momento che erano onesti e coerenti con loro stessi. Diciamo pure che era l'unico momento che mettevano in scena il loro essere più profondo.
La sola persona cui non piaceva fare quelle adunate era il capitano Bill Collins. Andare in un luogo come quello voleva dire sprecare il proprio tempo in fugaci prove edonistiche, dove veniva fuori solo la parte animale delle persone. Lui si considerava un introspettivo. Da sempre. Soprattutto da quando aveva perso in Iraq la sua famiglia. Sua moglie e sua figlia erano saltate in aria in un cazzo di attentato kamikaze. Maledetti arabi di merda. Due anni prima, era in missione a Baghdad, nella zona calda, rossa della guerra che andava avanti ormai da tre anni senza arrivare ad una rapida conclusione, così come aveva pronosticato il suo amato presidente Bush. Era un giorno di primavera, il 13 aprile di quel maledetto anno. Si trovava in missione poco lontano, partito la sera prima. Sua moglie Josie era rimasta con la bambina. Come tante altre volte. Ormai erano abituati tutti a quelle separazioni. Erano uscite di buon'ora ed erano andate al mercato. Josie sapeva far bene la spesa anche in terra straniera. Da brava donna americana media sapeva trattare e fare buoni affari con gli arabi. Per alcuni aspetti non si sentiva neanche in guerra con loro, si sentiva, dopo averci fatto un pò l'abitudine, come a casa propria. Tenendo per mano la figlia Marion, si addentrò nel mercato già affollatissimo. Tutto un brulicare di voci arabe e colori e svolazzare di tessuti e carretti con frutta e verdura e animali macellati e porcellane varie. Insomma un tipico mercato arabo di primo mattino. Alle 9.13 in punto, una donna vestita alla maniera araba e coperta da un velo nero che lasciava vedere solo gli occhi scuri e profondi si faceva saltare in aria. L'americana e l'araba per un momento confusero le loro carni straziate. Non rimase molto dei loro poveri corpi. Della bambina ritrovarono solo la bamboletta Cika che le aveva regalato il papà qualche mese prima. Rientrato in patria, decorato, lo assegnarono, dopo un breve periodo di stasi, a quella base militare.
Da allora il capitano Collins combatte con se stesso e col deserto. Ecco qual e' la sua vera missione e quali sono i suoi veri nemici. Quel venerdì si trovò a girare come al solito, da solo con la sua jeep, tagliando quelle strade che sembravano infinite e non portare a nulla. Passò anche di fronte ad un mastodontico cartellone pubblicitario che recava la scritta enorme di Nothing. Era piazzato proprio in bella vista ai lati di una strada in mezzo al deserto. Sapeva che era dell'artista Jack Pierson e che faceva parte del progetto artistico "High Desert Test Site", ma comunque lo colpiva sempre in maniera violenta. Diceva sempre che "era proprio strano vedere un cartellone simile nel bel mezzo del nulla". Poco dopo arrivò in un'area desolata, con un grande masso al centro, conosciuto col nome di "Giant Rock". Era una pietra considerata sacra dagli indiani della zona. Qualche tempo prima, un avventuriero ci aveva scavato delle piccole nicchie sotto. Sembra che infilandocisi dentro, si riesca ad entrare in contatto con gli alieni e così a ringiovanire. Leggende, certo, ma piene di fascino per uno come Collins. E così faceva ogni venerdì. Arrivava lì, scendeva dalla jeep, si guardava un po' intorno finendo poi per scrutare l'orizzonte per alcuni istanti. Subito si gettava in una di quelle buche, velocemente, così da non essere visto da nessuno, proprio come fanno i suricati alla presenza di qualcuno o qualcosa. Una volta dentro, guardava sopra per un'ultima volta (come era azzurro e bello il cielo visto da lì), chiudeva gli occhi e si abbandonava ad un sonno senza sogni. Divenendo della stessa materia della pietra che lo accoglieva, riusciva così finalmente a rigenerarsi. Quella volta il sonno durò più del solito.
Quando si svegliò era tutto buio e una luna gigantesca (avete mai visto la luna nel deserto?) lo attirava a sè. Una volta fuori, sentì un brivido di freddo lungo la schiena.
Si accese una Lucky, col suo zippo argentato e fumò senza fretta. Solo il rumore di un lieve vento e ululati lontani a fargli compagnia.
Gianluca Nicastro