Interviste >> Aidoru
È stata una serata all'insegna del suono e delle emozioni quella di giovedì sera all'Angelo Mai, in cui gli Aidoru, gruppo della scena sperimentale italiana, sono riusciti a creare un'atmosfera fatta di musica evocativa, suoni che avevano la capacità di riecheggiare paesaggi emotivi e richiamare esperienze.
Un vero viaggio nelle sensazioni: la loro musica si rifà alle armonie dei paesaggi naturali ed urbani, musica che accelera e rallenta i battiti del cuore dialogando con il vissuto di ognuno di noi. Giovedì si è percepito una particolare fusione tra il gruppo e il pubblico grazie a questa musica frutto di una costante ricerca e di una visione artistica che si fonda sul desiderio di fruire la musica in modo diverso. Una musica che porta l'ascoltatore in una dimensione ipnotica, una sorta di bolla separata dallo spazio esterno che ti porta fuori dal tempo ordinario per accomunare il pubblico in una particolarissima esperienza che stimola sensazioni e pensieri, attivando le persone ad un ascolto più consapevole delle proprie individuali percezioni. Hanno presentato il loro ultimo lavoro Songs canzoni-Landscapes paesaggi, album uscito nel 2009, edito da Trovarobato. In questa occasione li abbiamo intervistati.
Partiamo dal vostro nome ‘Aidoru'. Come mai questa scelta particolare?Michele: Aidoru è come il popolo giapponese pronuncia la parola inglese idol, che vuol dire idolo, il loro modo di pronunciarla. Gli Aidoru in Giappone sono dei personaggi, pop star musicali che vengono lanciate e nel giro di una stagione spariscono dalle scene. Delle meteore. Esistono anche da noi, ma lì in Giappone, mi diceva Dario che è italo-giapponese, esistono nei negozi di dischi i reparti ‘aidoru', dove si trovano appunto i dischi degli aidoru del momento...
Avete scelto un nome giapponese perché avete tratto qualche tipo di influenza da quel popolo?
È venuto naturale pescare nella cultura giapponese con la quale avevamo un aggancio diretto visto che Dario è in parte giapponese. Prima avevamo un altro nome, noi veniamo dalla scena punk-rock, ormai più di 15 anni fa, ci chiamavamo Konfettura, eravamo ragazzetti, poi abbiamo deciso di evolverci, di sperimentare, di cambiare, di non fossilizzarci in un cliché.
Parliamo di questo cambiamento. Come siete arrivati a questo punto, come avete sviluppato la vostra ricerca?
Il percorso è stato lungo, nel senso che abbiamo attraversato varie fasi: quella ad esempio della musica ‘più composta', creata cioè con l'approccio del compositore, quindi testi scritti, arrangiati con un organico strumentale di un certo tipo dove nulla o quasi è lasciato al caso. Fino all'ultimo lavoro, che è ovviamente quello che ci rappresenta di più e che ci piace adesso perché è una summa degli ultimi anni di esperienza e riassunto anche del lavoro col teatro da cui abbiamo imparato tantissimo, di ascolti personali, progetti paralleli (ognuno di noi ha suonato con altra gente, e portato poi qualcosa nel gruppo). Quest'ultimo lavoro infatti è completamente diverso, molto istintivo, molto grezzo, lasciato scarno.
Vi siete definiti ‘quartetto cameristico elettrico'...
Diego: ‘Quartetto cameristico elettrico' perché abbiamo sempre avuto un interesse verso una certa sensibilità legata alla musica classica, come gusto, come cultura del suono, a parte anche il fatto che io e Dario abbiamo avuto una formazione classica: ci siamo diplomati al conservatorio, e questo ha influenzato tantissimo, sia nella composizione dei pezzi, sia nella visione del progetto. Spesso molti giornalisti reputano questo tipo di influenza legata alla musica progressive degli anni '70: ci siamo accostati a gruppi del genere, che stimiamo, ma in realtà la provenienza diretta è veramente dalla musica classica. Elettrico perché abbiamo un set elettrico. Questo ha portato anche alla nascita di un'esecuzione, una presentazione in chiave personale dell'opera di Stockhausen Tierkreis, dove siamo disposti sul palco come un quartetto d'archi, quindi a semicerchio, solo che utilizziamo i nostri strumenti, per cui è un po' questo il motivo della nostra vicinanza alla musica classica.
Veniamo all'album che presentate stasera: Songs canzoni-Landscapes paesaggi. C'è un motivo del fatto che avete usato due lingue nel titolo?
Michele: Questo è un lavoro in cui le canzoni, la musica non hanno un testo, ci sono alcune parole, ma sono scritte nel book del cd, son parole che forse possono essere lette durante l'ascolto, come ulteriore suggestione di quello che la nostra musica evoca in questo lavoro. Dunque, non avendo testo, non avendo un legame con la canzone ‘cantata', abbiamo pensato di renderlo più universale, con un doppio titolo. Semplicemente perché è un disco universale, non c'è un linguaggio, un idioma specifico. C'è un idioma che è la musica, le sensazioni. ‘Songs', ‘landscapes' danno un minimo di coordinate di cosa tratta ad una persona che non parla italiano.
Mi davano l'idea di un sogno, di una musica ipnotica, onirica... I paesaggi, spazi fisici ma anche emotivi: sono paesaggi interiori, sensazioni?
Se ti dava questa sensazione allora vuol dire che ha funzionato.
È un tentativo nostro di rendere il paesaggio in musica, io vivo queste cose molto d'istinto ed è difficile tradurle in un discorso, spiegarle.
Rendere in musica qualcosa di prettamente visivo: mi aggancio a questo concetto per chiedervi del vostro rapporto con le arti visive ad esempio, e con le altre arti in genere. So che avete contaminazioni soprattutto con il teatro: come queste contaminazioni hanno influito sulla vostra idea di musica, e come sono entrate concretamente nel vostro lavoro?
Michele: Il lavoro che abbiamo fatto in questi ultimi anni con il Teatro Valdoca, a mio avviso è stata sicuramente tra le più grandi scuole che potevamo avere, perché abbiamo imparato a pensarci come parte di un organismo, di una comunità, essere sul palco da soli è una cosa, essere sul palco con degli attori, dove ci sono certe dinamiche, con un regista, luci, scenografie... è tutto un altro tipo di lavoro, per cui impari ad avere la consapevolezza che qualsiasi tuo gesto in scena, qualsiasi nota o suono in più avrebbe potuto avere un peso. Perciò abbiamo lavorato di sottrazione.
Dario: Più che le arti visive, Il concetto di paesaggio ha influenzato la nostra musica. Sono cinque anni che lavoriamo sul paesaggio più a livello organizzativo. A Cesena organizziamo questo festival che si svolge in location inusuali, molto spesso immerse nella natura, in cui non andiamo per così dire a operare in modo violento a livello di installazioni, ma cerchiamo di fare degli allestimenti che creino una sorta di dialogo fra la tecnica, lo spettacolo, il contesto urbano o paesaggistico. Per cui tutta questa attenzione nel confronti del luogo ci ha anche portato ad una ‘introiezione' a livello formale, cioè: ‘che cos'è il paesaggio' ci siamo chiesti, perché un paesaggio ha una sua armonia formale pur non avendo degli schemi precisi. Nonostante ciò ha una sua armonia. Noi abbiamo cercato di portare questo concetto all'interno della nostra musica: abbiamo cercato di creare dei suoni che non avessero delle immediate riconduzioni a degli schemi, però avessero comunque una loro armonia. Il processo è stato molto sottile, un'elaborazione molto lenta, ci siamo arrivati piano, abbiamo fatto tanti esperimenti creando degli spazi sonori dove si potessero muovere degli attori, dei danzatori, e alla fine ci siamo arrivati secondo me, perché non avverti la forma ma avverti l'armonia. E' anche per questo motivo che siamo difficilmente catalogabili. E l'armonia di uno spazio ovviamente entra in rapporto con il tuo interno, la tua anima.
La voce come strumento. C'è molta improvvisazione?
È un processo emotivo. Non cerchiamo parole, è pura voce, pura espressione, fai una nota o un'altra, e cambia di volta in volta.
Parlatemi dei prossimi progetti.
Per la fine dell'anno abbiamo già in progetto l'uscita del nuovo lavoro, che è questa rielaborazione in chiave rock di una composizione di Stockhausen, che abbiamo presentato a Roma mercoledì, e sta raggiungendo una forma che andrà a finire sul disco a fine anno.
Monica Garavello (28.2.10)